Intervento prof. Paolo Ciucci

sintesi sull'intervento del prof. Paolo Ciucci (Università La Sapienza - Roma) a cura di Maurizio Guiducci

Qui la sintesi dell'intervento del prof. Paolo Ciucci, dell'Università La Sapienza di Roma, riguardo il lupo e tenuto in occasione del seminario organizzato dall'associazione Cani Avventura a Cervara di Roma nella primavera del 2005

Guardando al lupo ed al cane, in particolare con riferimento alle razze impiegate nella pratica dello sleddog, è bene, iniziando, sottolineare che, differentemente da come spesso si è detto e si è amato affermare in molta letteratura popolare, ovviamente per le molte similitudini morfologiche di questi cani col selvatico, ricerche recenti hanno dimostrato che non c'è affinità genetica maggiore di queste razze canine nei confronti del lupo rispetto le altre.
Quali quindi i punti di contatto? Innanzitutto riconosciamo che il lupo è il progenitore selvatico di tutte le razze domestiche.

Darwin, così come in seguito Lorenz, nel 54 nel suo famoso libro "Il lupo incontrò il cane", avevano affermato che probabilmente il progenitore del cane non era solamente il lupo ma fors'anche lo sciacallo; diversamente ricerche più recenti hanno verificato che il lupo è l'unico progenitore comune a tutte le razze canine domestiche, pur se con modalità e tempi che sono ancora oggetto di dibattito scientifico. Cosa che è sorprendente guardando alla gran variabilità esistente nel cane. Nonostante questo polimorfismo, in tutte le razze canine ritroviamo comunque dei pattern comuni, fisiologi e comportamentali che originano dal progenitore selvatico. La domesticazione risale al preneolitico (14, 15000 anni fa).
Ora pur se tutte le razze canine originano dal lupo bisogna prestare attenzione a non interpretare qualsiasi comportamento, forma o funzione del cane in termini di lupo. Il cane non è il lupo e sebbene più del 90% dei geni siano in comune, tra cane e selvatico esistono differenze enormi, fisiologiche, morfologiche e comportamentali. Questo perché altrimenti il cane non sarebbe quell'animale perfettamente adattato a vivere in un contesto completamente antropico che è. Infatti, tralasciando la morfologia, la differenza sostanziale col selvatico è che il cane in questi millenni di selezione artificiale ha perso quel comportamento elusivo ma anche aggressivo ed è divenuto quell'animale molto più adatto ad essere domesticato. Altra particolarità è la capacità di apprendere per tutta la vita, caratteristica propria dei lupi durante lo stadio giovanile. Questa "neotenia comportamentale" ovvero il mantenimento di caratteristiche giovanili in uno stadio adulto, è una delle caratteristiche che distingue il cane dal lupo.
Aspetto che diviene interessante se riferito al randagismo, quando il cane è costretto a tornare ad uno stadio selvatico, affrancato dall'uomo, ed alla sua inadeguatezza e difficoltà. Il cane trova il suo benessere solo all'interno di un contesto antropico.
IL LUPO PERCHE' C'INTERESSA; PERCHE' CONSERVARLO. INTERVENTI. SITUAZIONE ATTUALE E PASSATA. RICERCA.
Il lupo è una specie d'estrema rilevanza ecologica e scientifica. Sia per il ruolo di predatore all'interno degli ecosistemi, sia come vettore d'informazione scientifica da trasmettere anche al grosso pubblico; questo altresì per una questione culturale e per il valore simbolico che il lupo riveste. Non scordandoci che proprio da questo "valore", che il lupo ha avuto nelle culture umane, nasce la domesticazione. Inoltre il lupo rappresenta un animale di forte interesse nelle problematiche gestionali essendo un predatore che entra spesso in situazioni di conflitto con le attività antropiche, quali la zootecnia, che non possono non essere prese in considerazione quando ci si riferisce alla protezione della specie. Il lupo è protetto in gran parte del mondo, ed in Italia dal '71 con decreti ministeriali temporanei prima, e quindi, dal '76, con una legge nazionale e con una serie di sforzi di conservazione, ricerca e gestione. Il lupo era distribuito in tutto l'emisfero settentrionale, in Europa occidentale ed Orientale, fin alla Siberia. A partire dal 1500, soprattutto in Europa Occidentale, quando il lupo è visto come specie nociva, a seguito d'enormi sforzi d'eradicazione, la specie si è estinta in molti paesi. Le uniche popolazioni di lupo in Europa, presenti ad oggi, sono in Italia, Spagna, Portogallo, ex Jugoslavia, e la popolazione più numerosa a contatto con i paesi dell'Europa Orientale. Questa è un'immagine recente. Negli anni '70 la situazione era ben più drastica tant'è che nei primi anni '70 il WWF internazionale finanziò un primo progetto di ricerca (Boitani e Mitchel) e conservazione di cui uno dei primi obiettivi fu lo stimare la popolazione del selvatico. Queste valutazioni rilevarono in Italia nel '73, non più di 100, 110 individui sparpagliati nell'Appennino Centromeridionale in sole 10 isole montane, ovviamente in zone a bassissima antropizzazione. A questi anni risalgono i primi tracciamenti con radiocollari, utili per seguire gli spostamenti dei soggetti ed apprendere molte informazioni sull'ecologia della specie e sulle possibili azioni di conservazione. La situazione che fu disegnata mostrava una specie ad alto rischio. Ciò spinse associazioni quali il WWF ed altre non governative a sviluppare delle campagne di conservazione della specie, ed è grazie a queste campagne che il lupo divenne specie protetta adoprando una serie d'interventi e misure di conservazione per cui oggi la specie non corre più rischi d'estinzione così elevati. Le ricerche di quegli anni evidenziarono una biologia del lupo nettamente differente da quella che si conosceva in Nord America ed in situazioni molto meno antropizzate. Questi lupi, che sopravvivevano isolati in queste 10, o poco più, isole montane, facevano un uso intensivo delle poche aree completamente forestate dove la presenza antropica era più bassa e queste foreste erano utilizzate tutto l'anno per zone rifugio dove il selvatico si andava a riparare durante le ore diurne per evitare il contatto coll'uomo. Situazione che è pur vera oggi, ma con importanti differenze. Il lupo viveva in alta montagna, nascondendosi, durante il giorno, per scendere poi al crepuscolo verso centri di media dimensione dove trovava risorse alimentari soprattutto in forma di rifiuti o di bestiame domestico; tornado durante le prime ora dell'alba nuovamente verso le zone di rifugio. Il lupo è stato tanto bravo ad adattarsi a questa situazione che addirittura si pensava in certe zone fosse estinto. Sostanzialmente il lupo ha adattato una strategia "da fantasma". Il lupo però evitava i grandi centri abitati avendo ciò come conseguenza che valli ad elevata antropizzazione finivano per creare delle vere barriere agli spostamenti sul territorio di questi individui. Considerando che già dalla fine degli anni '60 la fauna selvatica, preda del lupo (cervo, cinghiale, capriolo), era estremamente ridotta per effetti di una caccia indiscriminata, mai regolata e non gestita in maniera oculata, il lupo è sopravvissuto in Italia grazie alla brutta abitudine d'avere discariche a cielo aperto. Gli scarti delle attività antropiche finivano per essere la fonte principale d'approvvigionamento. Se ciò, dal punto di vista dello stile ecologico del lupo lascia a desiderare, ha però consentito alla specie di sopravvivere, pur se in condizioni ecologiche estremamente compromesse. Occasionalmente il lupo, quando ne aveva opportunità, predava anche il bestiame domestico. In quegli anni il problema, vista l'entità numerica della specie a rischio d'estinzione, non rappresentava una questione quale è oggi in alcune zone. Non solo perché oggi ci siano più lupi, ma in quanto si è persa la cultura pastorale originaria. Il lupo, per il pastore, era uno degli eventi possibili, come altri accidenti naturali. Il lupo non andava a fare strage di pecore; perché il pastore stava tutto il giorno col gregge, perché la pecora era in un gruppo di non più di 300 - 350 animali (la morra abruzzese) seguiti a vista e spesso accompagnati da una muta di 3 - 4 cani maremmano/abruzzesi che erano selezionati esattamente per tale scopo. Quando questa cultura pastorale di coesistenza col lupo si è andata perdendo si sono venuti a creare i problemi reali. La pecora, come tutti gli animali domestici, dipende dall'uomo per la sua difesa dai predatori e ciò comporta che se l'uomo non mette in atto adeguate tecniche di controllo, il lupo ne può approfittare. Ma non solo il lupo, anche altri predatori e, forse anche in maniera più consistente, i cani vaganti.
Quindi quali erano i rischi di sopravvivenza della specie in quegli anni e quali sono state le indicazioni d'intervento? Innanzitutto le unità sociali (branco) del lupo erano esigue. Sia per carenze d'alimentazione sia per persecuzione, fino agli anni '70, legale. Con rischio quindi di estinzione a livello locale. Altro problema la realizzazione d'infrastrutture nelle zone montane con riduzione dell'habitat della specie. Le discariche, per altro, se da una parte erano una delle principali fonti d'alimentazione del lupo, dall'altro creavano una possibilità di contatto con il cane con rischi d'ibridazione. Perché dobbiamo ricordare che da un punto di vista genetico lupo e cane sono la stessa specie e perfettamente interfecondi. A tal proposito dobbiamo però ricordare che il cane è da considerare un'entità faunistica ben distinta dal lupo e che quindi, pur se biologicamente appartiene alla stessa specie, c'è il rischio d'inquinare la purezza genetica del selvatico.
Dagli anni '70 ad oggi a seguito di una serie di misure di conservazione che di fatto sono state implementate a partire dalle indicazioni di quegli studi, si è osservato un forte recupero spontaneo della specie. Recupero favorito da vari fattori; quello legale con la protezione permanente della specie, ambientali con la protezione di habitat critici, la creazione di parchi nazionali ed aree protette, ancor più importante, con il recupero e la tutela delle prede naturali con interventi d'introduzione e reintroduzione di ungulati selvatici. Il fenomeno d'inurbamento, con l'abbandono delle campagne ha inoltre portato ad una maggiore disponibilità di spazi per il selvatico. Fattore importantissimo per questa ripresa resta la grande capacità del lupo di recupero da condizioni drammatiche con, in particolare, la possibilità d'incrementare in poco tempo la popolazione numerica. Cosa che non avviene ad esempio con orso e lontra, specie anch'esse protette. Il lupo si riproduce una volta l'anno, ma una femmina ben nutrita può partorire anche 5/7 cuccioli con, in condizioni favorevoli, la possibilità di ancor più che raddoppiare la popolazione effettiva in un solo anno. Altra caratteristica critica è la capacità dispersal, con movimenti di dispersione ed animali giovani che una volta vicini all'età adulta spesso si allontanano dalla loro famiglia alla ricerca di un nuovo territorio, per incontrare un soggetto di sesso opposto e creare così un nuovo branco. Il lupo è un gran camminatore, e se all'interno del suo territorio è capace di percorrere 30, 35 chilometri in una notte, un animale in dispersione può compiere in pochi giorni centinaia di chilometri. Ultimamente anche in Italia siamo in grado di portare dati che ci riguardano con l'utilizzo di radiocollari che si avvalgono della (rete GSM o satellitare GPS?), con il caso emblematico del lupo "Ligabue", che è ha avuto risalto anche mediatico, che dalla provincia di Parma, andando in dispersione, si è spostato fin oltre il confine francese compiendo più di 1000 chilometri in meno di due mesi. Ciò rende conto dell'enorme capacità di dispersione e ricolonizzazione di questa specie Abbiamo quindi oggi un recupero dell'areale pregresso di distribuzione ed anche numerico, con una stima attuale di circa 500/600 lupi, pur se con un margine d'errore abbastanza ampio. La tendenza è tutt'ora positiva. Questo recupero non è stato solo numerico ma anche di ruolo ecologico. Fenomeno piuttosto recente, il numero di discariche è di molto inferiore a quello degli anni '80. Il lupo in gran parte dell'areale occupato è tornato a predare efficacemente tutti gli ungulati selvatici presenti sul territorio con ovvie differenti zonali. Se attualmente però abbiamo minor rischi di estinzione della specie quelle che si pongono al presente sono problematiche d'ordine gestionale; una fra tutti il conflitto con la zootecnia. C'è da aggiungere che purtroppo a tutt'oggi, anche all'interno dei parchi nazionali il lupo è "gestito" dal bracconaggio. Abbiamo valutato che il 25% della popolazione a livello nazionale venga uccisa illegalmente od accidentalmente. Non dimentichiamo comunque infine che seppur molto si è fatto, il successo gestionale che si è avuto nella conservazione del lupo resta dovuto in molta parte alle forti caratteristiche di recupero della specie.
SCHEDA BIOLOGICA
Un animale adulto di lupo appenninico di sesso maschile pesa massimo 40 - 42 chili, con le femmine che pesano circa un 5 chili in meno. Il lupo appenninico è leggermente più piccolo di quelli che popolano il Canada, l'Alaska e la Siberia. Come morfologia generale può ricordare un cane nordico. Il mantello è bruno rossiccio con alcune bande scure e con variazioni tra la stagione estiva ed invernale. Il suo movimento è estremamente plastico ed elegante. In altre popolazioni troviamo colorazioni differenti anche in maniera molto marcata. Ciò in passato aveva anche indotto alcune confusioni tassonomiche. Alle latitudini settentrionali ritroviamo lupi tutti neri ed anche bianchi, con una serie di colori intermedi, non caratteristiche di zone geografiche ma diversamente presenti anche all'interno della stessa cucciolata. Ciò che in questo contesto ci preme dire è che in Italia non abbiamo avuto mai ne lupi neri, ne bianchi; nell'area del mediterraneo il mantello è abbastanza omogeneo, bruno rossiccio. Ora negli ultimi anni (4, 5) in Italia sono comparsi dei lupi neri. Questo ha aperto un dibattito nella comunità scientifica con chi afferma che ciò non è indicativo ed è semplicemente una comparsa dovuta ad un aumento di combinazioni genetiche favorite dall'incremento numerico, e con chi invece partendo dall'osservazione, con rilievi anche genetici che hanno evidenziato alcuni soggetti neri come ibridi con cane, ritiene che questo aumento di individui di questo colore sul territorio possa essere indicativo di animali introgressi, ovvero ibridi di seconda o successiva generazione. Questo problema verrà probabilmente risolto a livello genetico ma su tempi lunghi e quindi inefficaci per intervenire.
Il lupo è animale sociale, l'entità numerica del branco può variare da un numero di 2 individui (una coppia) ad un massimo, osservato occasionalmente alle latitudini più estreme (Alaska e Siberia), di 30 - 35 soggetti. Mediamente la dimensione del branco è molto più esigua, 5, 6, massimo 7 individui; la coppia ed i cuccioli od al limite anche giovani della cucciolata dell'anno precedente che ancora non sono andati in dispersione. Il branco dei lupi non è una semplice aggregazione di individui casuale ma ha regole e gerarchie ben definite. Semplificando gli individui alfa (maschio e femmina che si riproducono) hanno privilegi ma anche responsabilità molto maggiori rispetto gli altri componenti del branco via via più bassi a livello gerarchico. Gli individui alfa mediamente sono i soggetti più prestanti ed esperti nella caccia, nella difesa del territorio e sono di buon grado ritenuti tali dagli altri componenti del branco. In definitiva sono quei soggetti che in base alle loro capacità culturali e fisiche riescono maggiormente a garantire la sopravvivenza e l'adattamento dell'intero branco in natura. Dobbiamo ricordare che essere un predatore può vuol dire predare animali delle dimensioni di un Alce (in Nord America) od anche, qui da noi, di un grosso verro, con rischi anche notevoli. Sono gli individui alfa in realtà a partecipare attivamente alla caccia; i più giovani generalmente seguono l'azione sperando nell'abbattimento della preda. Grossa funzionalità del branco e della gerarchia al suo interno è che le femmine subalterne vengono inibite nella riproduzione dalla dominante cosicché si ottiene che è solo questa a riprodursi e che tutto il resto del branco coopera nell'allevamento dei cuccioli della coppia alfa. In sostanza nel branco di lupi tutti i componenti partecipano alle cure alleloparentali della cucciolata. Ciò comporta un'enorme possibilità di sopravvivenza per la prole. Comportamento che è stato perso nel cane inselvatichito. La coesistenza pacifica all'interno del branco è consentita da dei moduli comportamentali espressivi e comunicativi estremamente efficaci. Visivi, acustici, olfattivi; facilmente riconoscibili anche nel cane e che vengono utilizzati poi all'interno di esibizioni ritualizzate. Questo tipo di display, pur se avviene tra due soggetti, essendo visivo viene letto ed interpretato a livello dell'intero branco. Prerogativa importante per gli animali dominanti è, come abbiamo visto, che sono gli unici a riprodursi e questo a differenza che nel cane vagante. In Appennino la recettività sessuale della femmina avviene intorno la metà del mese di marzo. La gestazione dura intorno i 63 giorni come nel cane, le cucciolate sono formate da 4/7 cuccioli. Le tane sono realizzate in vari tipi di substrato. I cuccioli sono completamente dipendenti e la cucciolata è tenuta durante il corso dell'estate e nei mesi autunnali in luoghi sul territorio che vengono tecnicamente definiti randevouz side con il branco che ruota intorno e gli adulti che tornano al randevouz portando ai cuccioli gli alimenti forniti dalla caccia. Ed in definitiva, guardando al cane, ritroviamo in esso l'atteggiamento del cucciolo di lupo che aspetta il nostro ritorno col cibo. Una neotenia comportamentale che è stata stimolata dalla domesticazione. Gli alimenti vengono rigurgitati dagli adulti che vengono stimolati a ciò dal comportamento dei cuccioli (uggiolati, movimenti della coda, colpetti e leccate intorno al muso). Atteggiamento spesso riscontrabile anche nel cane e tipico di tutti i canidi in generale. A novembre, dicembre, i cuccioli hanno una dimensione simile a quella dell'adulto e quindi sono in grado di unirsi agli altri individui del branco per spostarsi sul territorio. Il cucciolone quando arriva sulla soglia della maturità sessuale, intorno i due anni, ha due strategie possibili riproduttive. Attendere e cercare la scalata sociale oppure mettersi in dispersione abbandonando il branco alla ricerca di nuovo territorio e di un soggetto di sesso opposto. La dispersione ha enorme importanza. Perché mantiene un controllo sulle dimensioni del branco garantendo l'equilibrio predatore/prede, perché aumenta le possibilità di variabilità genetica mettendo in contatto lupi anche molto distanti, perché, soprattutto, assicura una continua pulsione all'espansione dell'areale. Senza ciò non avremmo certo osservato il recupero del lupo che invece è avvenuto su scala nazionale.
Il lupo è animale fortemente territoriale, con dimensioni anche notevoli (in Appennino si parla che un branco possa avere mediamente un territorio di 200, 250 chilometri quadrati). Il lupo difende il proprio territorio. Uno dei sistemi è l'ululato col quale di fatto è identificato il branco. Altro è la marcatura con orina e feci, anche qui come nel cane. Il risultato è che il lupo non è distribuito sul territorio in maniera casuale ma omogenea, una sorta di mosaico di territori non sovrapponibili. Mentre la struttura gerarchica assicura un controllo sul potenziale riproduttivo (si riproducono solo i dominanti), la territorialità limita le unità riproduttive sul territorio. Tutto ciò porta ad un controllo sulla densità della popolazione che resta in quell'equilibrio necessario con le popolazioni preda. In Italia le densità più elevate nelle aree a maggior protezione arrivano massimo a 2,5 3,5 lupi per 100 chilometri quadrati. Quindi densità molto ridotte. La densità di gran lunga inferiore a quella delle prede porta ad un equilibrio preda/predatore. Ciò non comporta quindi problemi nel potenziale riproduttivo delle specie preda. Questo anche perché le prede selvatiche, a differenza delle domestiche dove ciò si è perso ad opera della domesticazione, hanno comportamenti di difesa dal predatore ben funzionali. Tant'è che la percentuale di fallimento di un attacco di lupi raggiunge il 90%. La popolazione del lupo (individui, branchi) sono strettamente modulati dal numero di prede presenti.
METODI DI RICERCA
Importante in Italia, dove l'elemento antropico è altamente presente, è studiare come il lupo si rapporti alla matrice antropica, e ciò anche attraverso infrastrutture sul territorio ed importantissimo è investire sulla ricerca. Metodi di ricerca si basano su segni indiretti di presenza essendo il lupo altrimenti difficilmente osservabile direttamente. Un metodo importante è rilevare le impronte sul territorio. Ricordiamo a tal proposito che le orme del lupo non sono distinguibili da quelle di un cane di media taglia diversamente da come spesso è riportato. Bisogna stare ben attenti quindi a non confondersi con la presenza di cani vaganti. Altra metodica è l'osservazione dei resti della predazione. Elemento fondamentale è l'osservazione degli escrementi che i canidi depositano come marcatura del territorio in posizioni facilmente evidenziabili, e che quindi sono facilmente rilevabili. Attraverso l'esame degli escrementi, con opportune metodiche, si risale alla dieta ed alle abitudini alimentari della specie. Altro sistema di ricerca è quello sugli ululati indotti. Questo per la tendenza della specie di rispondere con ululati a suoni modulati e lunghi. Simulando l'ululato del lupo è quindi possibile ottenere una risposta da un branco presente. Ciò non può essere usato per censimento della popolazione in quanto non è possibile sapere quanti e se i lupi rispondono. Difficile è anche discernere quanti lupi siano a rispondere. Questa metodica però se usata in estate può divenire molto utile per individuare i cuccioli e quindi i branchi che si sono riprodotti. Infatti i cuccioli sembrano essere molto più propensi a rispondere all'induzione dell'ululato. Questa tecnica viene quindi utilizzata facendo campionamenti sistematici sul territorio per stimare quanti siano i branchi presenti e quanti quelli che si sono riprodotti. Questa è una domanda molto più interessante della semplice domanda di quanti lupi ci siano, in quanto rende conto di quante unità riproduttive autonome esistano all'interno di un determinato territorio. Altro sistema è seguire le tracce sulla neve. Molte sono le informazioni ottenibili sul numero dei soggetti, sulle loro abitudini alimentari, con possibilità di raccogliere residui organici, quali feci. La metodica che si effettua con sessioni di snow trekking alcune ore dopo una nevicata, in Appennino però presenta spesso la problematica di zone esposte e prive di neve che spesso interrompono la traccia. In ultimo riportiamo la tecnica della telemetria dove l'animale viene catturato con metodi incruenti, sedato e dotato di un radiocollare. E' quindi seguito con l'ausilio di antenne direzionali. Questa tecnica di telemetria tradizionale è in parte recentemente soppiantata dalla tecnica che utilizza il tracciamento col sistema satellitare. C'è da dire che per una serie di motivi e ritardi purtroppo le rilevazioni telemetriche sono state e sono esigue come numero in Italia.
IL LUPO ED IL RANDAGISMO CANINO
Quando si iniziarono le prime ricerche sul lupo, nella Maiella negli anni '70, ciò che si notò subito, nel trappolare gli animali, fu che restavano catturati molti più cani. Questo immediatamente incuriosì; infatti cosa ci facevano cani in un contesto ambientale selvatico e non antropizzato? Vicino i paesi ci si sarebbe aspettati di trovare dei randagi ma in quel contesto la cosa insospettì. Tant'è che negli anni '80 partì un progetto nel territorio dell'attuale Parco del Velino - Sirente dove vennero utilizzate sui cani inselvatichiti le stesse tecniche di ricerca che abbiamo visto per il lupo. Vennero quindi applicati dei radiocollari allo scopo di studiare l'ecologia di questi animali. Quando parliamo di cani randagi non parliamo di un singolo gruppo di animali ma di una serie di categorie. Andando dai cani randagi propriamente detti, ai cani inselvatichiti che sono tornati a vivere in un contesto selvatico. Dobbiamo identificare tre tipologie di cani guardando al randagismo. I cani padronali, ufficiali od ufficiosi, dove il proprietario, pur se riconosciuto, non esercita un controllo adeguato sull'animale che viene lasciato vagare in parte della giornata. I cani randagi che pur non avendo un proprietario vivono all'interno del contesto antropico e sono adottati, in maniera più o meno diretta (resti di cibo donati, cassonetti, discariche), dalla comunità umana. Infine i cani inselvatichiti, in un passaggio ulteriore, dove il cane si affranca dall'uomo allontanandosi dal contesto antropico e andando a vivere nell'ambiente selvatico. Queste scatole non sono dinamicamente separate ma abbiamo dei passaggi da l'una all'altra. Così cani padronali vaganti possono passare allo stato di randagio, randagi possono inselvatichirsi ma anche randagi possono essere adottati da un padrone, inselvatichiti (di generazione 0) tornare in ambiente antropico. Quello che non si è mai rilevato è il passaggio da animali inselvatichiti di seconda e successiva generazione, cioè nati in natura e che mai hanno avuto contatti coll'uomo evolvendo tutto il comportamento elusivo tipico di un selvatico, ad un ambiente nuovamente antropico. Negli anni '80 esplode il problema dei cani vaganti, anche demograficamente, in una stima effettuata su circa 4 milioni di cani presenti in Italia, circa il 25% furono considerati vaganti, di cui padronali il 60%, randagi circa il 28% ed il resto cani inselvatichiti; ovvero circa 80.000 cani inselvatichiti sul territorio nazionale. Risultati ottenuti sulla scia di questionari e quindi soggetti a grosso margine di errore. La distribuzione non era uniforme sul territorio nazionale ma mostrava un andamento da Sud a Nord col numero di cani che mediamente tendeva ad aumentare secondo questo gradiente; la percentuale dei vaganti e inselvatichiti era maggiore nelle regioni meridionali. La differenza ovviamente non era ecologica ma culturale. Una cosa abbastanza grave è che in quegli anni proprio nelle regioni dove maggiore era il problema dei cani vaganti erano quelle poche isole in cui il lupo sopravviveva. Il cane padronale vagante o il randagio non fa grossi branchi come il lupo. Spesso va in piccoli gruppi, spessissimo in coppia. Questo perché le risorse alimentari sono scarse e se i cani si muovessero in gruppi più numerosi la competizione alimentare sarebbe troppo elevata. In più il vantaggio di vivere in gruppo, che in natura aumenta le possibilità di difendere il territorio e difendere i piccoli dai predatori, nel contesto del villaggio non si pone. Questi animali sono completamente dipendenti per il cibo dall'uomo. Sia direttamente sia indirettamente (cassonetti, fonti d'acqua). Il paese offre inoltre la possibilità di reperire siti per nascondersi e per fare la tana. Il numero di questi soggetti è mantenuto dall'abbandono e dalla nascita da randagi. La mortalità è comunque molto elevata; in diversi studi abbiamo evidenziato una mortalità superiore anche al 90%, ed è riscontrabile un numero di maschi prevalente su quello delle femmine per l'intervento umano che spinge ad una sottoselezione delle femmine stesse. Importante è sottolineare che questi cani rappresentano, soprattutto in periodi di forte interazione sociale, quale la stagione degli amori, potendo allontanarsi dal centro abitato, un grosso serbatoio demografico per cani più elusivi, inselvatichiti.
I cani inselvatichiti sono cani che a differenza degli altri vivono in un ambiente selvatico e rifuggono il contatto coll'uomo. I cuccioli che nascono in condizioni di isolamento dall'uomo e non hanno contatto con esso durante i primi 3 mesi di vita, non lo riconoscono più come una forma familiare e ne rifuggono poi sempre il contatto. Il loro comportamento sarà molto simile a quello di un animale selvatico. Dagli studi effettuati su questi soggetti, come abbiamo detto anche con radiotelemetria, siamo stati in grado di descriverne l'ecologia che è risultata essere molto diversa da quella del lupo, vuoi soprattutto in conseguenza del retaggio dovuto alla domesticazione. Innanzitutto questi cani inselvatichiti non riescono a formare unità sociali funzionali e coese. Infatti parliamo più correttamente di gruppo e non di branco. Invece di una gerarchia sociale abbiamo un'aggregazione di coppie monogame in cui tutte le femmine si riproducono. Tutto ciò fa si che un gruppo di cani inselvatichiti non riesca a difendere le risorse così come un branco di lupi. Non riesce a predare efficacemente come il lupo. Le femmine allevano la prole da sole e non sono aiutate dalle altre femmine del gruppo così come avviene nel selvatico, col risultato di avere una mortalità delle cucciolate elevatissima. Raramente un cucciolo che nasce in natura riesce a superare i 3 - 8 mesi di vita. I cani inselvatichiti reclutano soggetti dai cani vaganti. I gruppi occupano, nel contesto appenninico, territori dove la densità del lupo è ridotta vuoi anche per intervento umano. Non sono un'entità faunistica stabile sul territorio e dipendono alimentarmente fortemente dalle discariche comunali. Sono animali in via d'inselvatichimento ma non ce la fanno senza discariche. Un esempio è stato nel Velino Sirente, dove un gruppo, che abbiamo studiato per 4 anni, è scomparso non appena è stata chiusa la discarica di Ovindoli finendo per mancare quel supporto trofico. Questo porta un'importante implicazione gestionale in quanto controllando la presenza di discariche sul territorio automaticamente si limita il numero di inselvatichiti. I cani inselvatichiti soffrendo un'elevatissima mortalità non sono popolazioni riproduttivamente indipendenti. Altra implicazione gestionale quindi è che se si controllasse il randagismo, togliendo il serbatoio per l'inselvatichimento, il fenomeno stesso dell'inselvatichimento probabilmente non avrebbe ragione d'essere.
Se forse il problema del cane inselvatichito, attraverso questi studi, è stato leggermente ridotto o comunque ne sono state intraviste le soluzioni gestionali, il fenomeno dei cani vaganti (cane padronale libero di vagare o randagio), e le sue problematiche rimangono enormi; abbiamo problemi di tipo igienico sanitario, di ordine di sicurezza, di serbatoio di malattie per il lupo (dovuta all'alta densità dei cani vaganti rispetto quella del lupo), cosa importantissima, dei danni arrecati dai cani vaganti alla zootecnia. Ciò comporta una deprivazione dei fondi stanziati in base alla legge d'indennizzo pensata per il lupo. In pratica il cane vagante compete con i fondi stanziati per la tutela del lupo. Infine c'è il rischio d'ibridazione con il lupo che secondo il mio parere è oggi più pressante che durante gli anni '70 per il fenomeno d'espansione avuto dal lupo che ha finito per rioccupare aree maggiormente antropizzate che nel recente passato dove maggiore è la presenza dei cani randagi e quindi maggiori le possibilità d'incontro.
Attenzione però, e per concludere, il cane vagante è un problema ma non scarichiamo tutto sul fenomeno degli inselvatichiti, perché studi nostri e d'altri gruppi, fatti sia in Italia, sia all'estero, indicano che il problema gestionale più grosso è a livello dei cani vaganti e dei cani randagi e quindi, in sostanza, alla fine la responsabilità è sempre la nostra.

Oggi vi proponiamo...

  • La paura dei botti di Capodanno

    La fine dell'anno si avvicina e, per molti proprietari, l'incubo dei botti di Capodanno. Generalmente non ci pensiamo poiché il problema non ci si è mai presentato. Da noi i cani, oltretutto in branco (ed il comportamento del cane in un branco spesso lo vediamo diverso da quello del singolo animale nel branco misto coll'uomo) sono molto abituati agli spari -sic- dei cacciatori. E' però possibile che un cane tema in maniera eclatante (ad arrivare ad una reazione fobico/ansiosa ) i "botti".

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